Quindici anni di scoperte archeosub
Sono oltre 270 i reperti antichi esposti al Centro Giovanni Lilliu nella mostra di archeologia subacquea curata dalla Soprintendenza ai Beni archeologici di Cagliari e Oristano e dalla Fondazione Barumini.
L’acqua è lontana, dalle colline verdissime della Marmilla. E lontano è il mare. Ma è qui, a Barumini, nelle grandi stanze del Centro di comunicazione e promozione del patrimonio culturale intitolato a Giovanni Lilliu, a due passi dalla reggia nuragica che proprio il grande vecchio e lungimirante archeologo riportò in superficie, che ci si può immergere nel sogno, andare a spiare i fondali del Mediterraneo “sardo” e scoprirne i segreti. Una parte di certo piccola ma incredibilmente suggestiva dei suoi misteri. Un viaggio subacqueo nell’archeologia marina lungo 15 anni. A tanto ammonta il tempo delle scoperte, delle ricerche e degli scavi messi in campo dagli studiosi della Soprintendenza archeologica di Cagliari e Oristano grazie ai quali i tesori sommersi, oggi in mostra, sono stati salvati e restituiti all’uomo. A tutti gli uomini visto che l’esposizione, bellissima anche nella sua scenografia («Interamente realizzata a Cagliari nei nostri laboratori del porto», ricorda l’archeologo subacqueo Ignazio Sanna) è stata realizzata con la massima attenzione per assicurare, anche ai portatori di handicap, compresi i non vedenti, la possibilità di interagire.
Un tuffo, allora. Immaginario e bellissimo per toccare con mano la storia «e quel che il mare conserva», ha salvaguardato per secoli abbracciandolo con il fango e la sabbia, proteggendolo per poi restituirlo grazie a scoperte a volte casuali, spesso ricercate. Sempre eccezionali.
Sono 270 i reperti esposti in questa importante mostra temporanea. Alcuni di particolare valore, come il cannone del Cinquecento riportato alla luce nei mesi scorsi e interamente restaurato con speciali tecniche di conservazione per fermare la corrosione del ferro e impedire il disfacimento, dopo l’emersione, dell’affusto ligneo a due ruote. Come la bellissima macina di Su Pallosu e le anfore arrivate dalla Spagna con il loro eccezionale carico di “pietre” di silicio da cui i Fenici ricavano, fondendole, la materia prima per realizzare i loro manufatti in vetro. Come quel satiro punico di incredibile bellezza restituito dalla laguna di Santa Giusta.
Un percorso ideale che inizia con la navicella nuragica e si snoda attraverso una storia lunga sette secoli. Risale a 7.200 anni fa la mandibola di capra con tanto di denti recuperata negli stagni di Terralba. In due siti di età neolitica dove gli archeologi stanno mettendo a nudo l’antica presenza dell’uomo in zone oggi occupate dall’acqua e dunque «profondamente mutate rispetto al passato», spiega Sanna. È qui, a Sa Punta di Marceddì e a Rio Saboccu, quattro chilometri più a sud, sulle sponde di San Giovanni, che l’acqua e la terra hanno restituito oltre un migliaio di manufatti in ossidiana lavorati in zona ma ricavati da “pietre” trascinate probabilmente verso la costa da eventi alluvionali e provenienti dal Monte Arci, il complesso vulcanico che da anni il professor Carlo Lugliè del Dipartimento di Scienze archeologiche sta studiando.
Una mostra che da qui a breve si arricchirà anche di ulteriori modelli e ricostruzioni. E allora nella sala grande del centro Lilliu troverà riparo anche una piroga, fedele ricostruzione di un’imbarcazione neolitica scavata in una roverella con attrezzi molto simili a quelli usati dai nostri antenati. Con un’ascia che gli archeologi di Cagliari hanno “preso in prestito” dagli artigiani di settemila anni fa.
Fonte: Unione Sarda, Martedì 22 marzo 2011